Il vecchio sperimentalismo, insomma, così ancorato a dottrine idealistiche, non avrebbe più ragione di esistere perché le ultime trovate e le ansiose ricerche di novità ad ogni costo si sarebbero esaurite con la fine degli anni cinquanta.
E’ in questo quadro – sia pure sinteticamente delineato – che si situa l’esperienza artistica di Antonella Ongaro, spilimberghese, che ha frequentato la Scuola Internazionale di Grafica di Venezia sotto la guida del pittore tedesco Andreas Kramer.
La Ongaro lavora con materiali poveri quali terra, sacchi, tessuti riciclati, libri, legno, pietre, minerali, per trasmettere con semplicità sensazioni ed emozioni nascoste nell’animo umano.
Legata alla Transavanguardia, il movimento teorizzato nel 1979 da Achille Bonito Oliva ( e conosciuto anche come neo espressionismo) l’esperienza artistica di Antonella Ongaro è debitrice delle dinamiche instaurate dell’automatismo pittorico più noto, dopo la definizione datane nel 1952 dal critico francese Michel Tapiè, col termine di informale. Nonostante infatti che questo movimento fosse caratterizzato da un uso del colore informale, ad esso vi appartengono anche le ricerche materiche di Burri e Fontana, cui la pittrice rifà, anche filologicamente, per una intensa presenza di materiali poveri che costituiscono un tutt’uno con il colore.
« Il fine della natura è l’uomo. Il fine dell’uomo è lo stile ». Così recitava l’introduzione che un gruppo di artisti, riuniti attorno al movimento De Stijl – Lo Stile aveva posto come « incipit » di un documento nel quale venivano esposti i contenuti della loro originalissima proposta artistica. Tema di fondo di quel documento, quello della necessità dell’evoluzione dell’artista. Un evoluzione ineludibile, per opporsi a quella che il gruppo dei sottoscrittori definiva come la « dominazione individuale » nelle arti plastiche e, principalmente, alla forma ed al colore naturali.
E’ l’avvio (1919) del movimento espressionista, per il quale la maturazione dell’uomo e della sua coscienza naturale non poteva che rispecchiarsi nell’intero sviluppo dell’arte, dando avvio ad una « plastica nuova » e, quindi, ad un modo rinnovellato di esplicitare la tensione pittorica. Una esperienza importante perché – come ha avuto modo di rilevare Mario De Michelis in un suo studio sulle avanguardie artistiche del ‘900 - « gran parte dell’arte moderna è come immersa in una condizione espressionistica ».
Ed è proprio all’espressionismo, in particolare a quello di matrice francese a quello dei cosiddetti - « nuovi selvaggi tedeschi », che si riallaccia il neo espressionismo della transavanguardia in cui si riconosce Antonella Ongaro.
Seguendo motivi e richiami propri, oltre che dell’espressionismo, anche del simbolismo e dell’arte naive, la pittrice spilimberghese non ritrae più (se mai lo ha fatto) un mondo oggettivo, reale, chiaramente definito e strutturato in componenti geometriche e spaziali dalle coordinate immediatamente percepibili. Il « ponte » con la realtà del contingente è stato rotto dall’artista, « motu proprio», all’inizio della sua esperienza pittorica. Ne sono simboli incontrovertibili i coloriti fiori sfrangiati che si sviluppano a partire da archetipi della memoria, alla ricerca di una forma altra e diversa, che possa trovar posto nell’animo misterioso dell’universo.
Dove l’artista sente, di doversi misurare con la spiritualità dell’arte, con l’interna armonia di suoni e di musiche che la compongono. Il riferimento a Vassili Kandinsky è qui d’obbligo quando, nel suo Trattato sulla spiritualità dell’arte parla di una vera e propria presenza di Dio in essa. L’artista infatti, secondo Kandinsky, deve far risuonare questa armonia nello spirito dell’uomo con i poveri mezzi della pittura, « finalmente liberati dalla schiavitù dell’oggetto ».
Proprio questo aveva in mente Goethe quando, in un suo epigramma, aveva scritto che « l’orecchio è muto, la bocca è muta; ma l’occhio sente e parla ». Ma anche il cuore, perché per accostarsi alle opere di Antonella Ongaro occorre andare ben oltre l’impressione codificata ed immanente al quadro, che non è mai composizione ordinata, decoro o, ancora, specchio di una realtà fissata sulla tela, quanto piuttosto espressione potente ed invadente di stati d’animo che vengono prepotentemente alla luce con i bagliori, gli èclats improvvisi di una introspezione che ha scavato fin dentro l’anima. Alla ricerca di un legame nuovo e diverso con le cose e con la realtà del proprio interiore: con sé stessi, innanzitutto, per esprimere la valenza straordinaria e simbolica al tempo stesso di una realtà altra e diversa da quella della quotidianità, in grado di permettere, magari per microscopici attimi, una liberazione dall’alienazione quotidiana.
Perché questa riappropriazione non sia solo interiormente e personalmente spirituale, ma pervenga anche ad una epifania simbolica Antonella Ongaro ha scelto di incarnarla in una materialità visibile, manipolando con il colore, materiali poveri come la terra, che richiamano l’uomo al biblico detto che lo vuole nato da polvere e ritornare in polvere : « memento quia es in pulvem reverteris ».
Assieme ad un « andar oltre » che fa tutt’uno con quel « premere », con quella istanza a « colpire il centro della realtà » e a non restare ancorati alla periferia di cui parlava, in uno scritto forse poco conosciuto ma alquanto stimolante, Khasimir Edschmit.
Uno scritto nel quale rilevava che « eran necessario premere sulla realtà affinché da essa sgorgasse il latente segreto », che è poi l’origine di quella deformazione espressionistica che si rifà a Van Gogh e al Munch del famosissimo Urlo.
Probabilmente è anche per questo che oltre le porte, le finestre e le grate che sembrano chiudere tanti suoi quadri, Antonella Ongaro rappresenta figure umane già passate oltre o in procinto di farlo : accattivante invito rivolto allo spettatore a penetrare più in fondo, ad entrare nel quadro. Un invito ad oltrepassare la « soglia proibita », vincendo il timore e la paura, osando una sfida che può portare ciascuno di noi a scoprire in sé il fascino misterioso della natura.
Un fascino che sa di armonia e di musica, di quella « musica di colori » di cui parlava Kandinsky, e che possiamo ben rappresentare con alcuni versi di Shakespeare.
Sono gli stessi versi che avevano profondamente commosso il pittore russo che, dopo essere stato a capo degli espressionisti di Monaco, divenne uno degli iniziatori dell’astrattismo :
« L’uomo che dentro di sé non ha la musica,
che l’armonia di suoni non conosce,
è incline al tradimento, al furto, alla perfidia;
buia come la notte è la sua intelligenza,
oscuro come l’Erebo è il suo pensiero.
Diffida di quest’uomo! Ama la musica ».
Roberto Jacovissi
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